IL MISTERO DEI NURAGHI
Tradizioni e consuetudini ci consentono di risalire alla vera e autentica identità dei sardi.
Dalla rivista sarda "Sardegna oltre" del mese di gennaio 1984 e successivi aggiornamenti.

I nuragici erano dediti all’agricoltura e alla pastorizia e traevano solo da queste attività il principale sostentamento. La storia antica descrive con dovizia di particolari l’attitudine guerriera dei popoli che praticavano la pastorizia. I nuragici sotto questo aspetto non erano da meno. I nuraghi – come abbiamo sottolineato in altre occasioni – sono gli strumenti di guerra sorti col precipuo scopo di difendere le proprie terre e le proprie attività. Da questa esigenza primordiale scaturì una società del tipo patriarcale con una scala gerarchica in cui il “Pater” era di diritto il capo assoluto e incontestabile. Il nuraghe era la reggia del re pastore e della sua famiglia. In lui venivano accentrati tutti i poteri, secondo la concezione teocratica del “Re Dio” di tipo orientale. Attorno alla reggia, in modeste capanne, dimoravano i sudditi (servi pastori e artigiani) che nutrivano una particolare venerazione per il loro re, per il quale vivevano e morivano. Determinati aspetti della vita nuragica si trovano persino nella vita dei nostri giorni. I servi pastori anni addietro erano capaci di farsi uccidere pur di non farsi rapinare le greggi loro affidate dai padroni ( che sotto certi aspetti ricalcano l’immagine del re pastore).I nuraghi di modeste proporzioni facevano capo ad altre costruzioni mastodontiche, veri e propri centri di potere. Tanto più grande e sontuosa era la reggia nuragica e tanto più grande era il potere e conseguentemente la proprietà dei sudditi di terre e armenti. Il sistema politico veniva esercitato a livello cantonale, ossia ogni zona soggetta al re aveva la sua capitale, costituita dall’edificio nuragico più grande, alla quale facevano capo nuraghi di piccole proporzioni e il materiale umano esistente in tutto il territorio interessato.                                                    

 

 


Tanti piccoli stati che il più delle volte si facevano una spietata guerra fra loro per l’ampliamento dei propri confini. Nei boschi, tra le querce, avvenivano spesso sanguinose sfide tra i capi dei “clan” delle differenti dinastie, che si concludevano con la morte di uno dei re. Le recenti scoperte avvenute a Perfugas, secondo le quali sono state trovate tracce dell’uomo paleolitico in Sardegna, se da un lato hanno ribaltato idee e concetti sino ad ora conosciuti sui primi misteriosi abitanti dell’isola, dall’altro hanno dato nuovo impulso e vigore ad una ricerca seria e approfondita sui nuraghi. In un primo tempo si pensava che la Sardegna, terra antica fra le più antiche, fosse stata l’ultima a ricevere la visita dell’uomo.

Le cognizioni sulle origini dei protosardi erano ferme quindi al neolitico, periodo in cui l’uomo fece un significativo balzo in avanti, cambiando radicalmente contenuti e metodi di comportamento umano e sociale. La civiltà nomade e di rapina venne così abbandonata lasciando il posto ad una evoluzione, lenta sotto certi aspetti, ma progressiva e penetrante, che diede  il via a quella forma di vita che gli esperti definiscono stanziale. Uomini coraggiosi a bordo di fragili imbarcazioni, si diceva, si sarebbero avventurati nel mare raggiungendo l’isola, costituendovi i primi nuclei umani e sociali. La nuova scoperta di Perfugas, non esclude, quindi, la penetrazione in Sardegna di ignoti navigatori, ma mette in moto un punto fermo: essi trovarono altri insediamenti umani, con i quali dovettero fare i conti. Si saranno scontrati, incontrati, accordati per una vicendevole integrazione. Noi non c’eravamo per dirlo, ma la logica umana e sociale vorrebbe così.


I Giganti di Mont'e Prama

A sostegno di questa tesi delle resistenze dei sardi contro le invasioni esterne ci è data conferma dalla scoperta dei Giganti di Mont'e Prama. Autentici testimoni dello spirito resistenziale delle popolazioni indigene contro i Fenici che si erano attestati a Tharros. L'illustre storico sardo Francesco Cesare Casula lo ribadisce nel suo libro "breve storia di Sardegna" pubblicato da Carlo Delfino Editore. "lo sta a dimostrare - scrive lo studioso - la doppia cinta muraria difensiva della città rivolta verso l'entroterra e l'esposizione delle gigantesche statue dei guerrieri indigeni morti nei combattimenti e inumati a Mont'e Prama, lungo la strada che da Tharros portava a Cornus, quasi una via sacra in ricordo e monito della prima resistenziale sardista della storia". Gli studi geologici effettuati, ci confermano che la Sardegna era collegata via terra con la Corsica e attraverso essa con la Liguria e il resto dell’Europa. 

Tutto questo avvenne durante le glaciazioni pleistoceniche, quando l’uomo aveva già fatto la sua comparsa sulla terra e, a quanto pare, anche a Perfugas, in Sardegna. Di fronte a questi dati è chiaro ed evidente che molte ipotesi sinora fatte sulla Sardegna e i sardi vengono rimesse in discussione. Il Sardus Pater, mitico personaggio, venerato come un nume, che sarebbe approdato in Sardegna dalle sponde africane non era e non poteva essere il fondatore del popolo sardo, poiché l’isola già aveva una sua identità, una sua collocazione culturale.

Senza dubbio in Sardegna approdarono altri popoli che, assieme agli abitanti preesistenti, dettero impulso alle civiltà susseguitesi nei secoli. Al di là di queste illazioni resta la realtà della presenza nell’isola di oltre settemila nuraghi e il ritrovamento di circa cinquecento bronzetti, risalenti a quel periodo e raffiguranti per lo più guerrieri armati. Essi costituiscono la testimonianza, la certezza che la Sardegna ebbe una sua dimensione umana e sociale, una cultura autoctona l’unica vera civiltà dei sardi, come l’archeologo Giovanni Lilliu tende a dimostrare nelle sue opere, con valide argomentazioni. La datazione di questi eccezionali monumenti, la cui configurazione presenta soluzioni originali nell’ambito di un diffuso megalitismo mediterraneo, si può collocare all’incirca tra il 1500 il III secolo a.c.. La ricostruzione della storia di un popolo, in certi periodi e per certi versi illetterato come il protosardo, richiede una paziente opera di ricerca e catalogo di tutti gli elementi a disposizione. Da diverso tempo negli ambienti culturali interessati si cerca di saperne di più, approfondire meglio il discorso ancora aperto, circa le tante ipotesi sinora formulate sulla civiltà più misteriosa del mediterraneo antico. Nel periodo in cui si consolidava la potenza fenicia, in Sardegna vi era un’incessante attività sociale, dalla quale scaturì una civiltà, lenta nell’evolversi a causa dell’insularità, ma che diede ai sardi una caratteristica propria. Per accertarsi della componente sociale nuragica occorre fare una capillare analisi del vasto patrimonio archeologico rimasto. Il nuraghe rappresenta il fulcro essenziale, poiché attraverso la sua funzione si possono, almeno in parte, scoprire le caratteristiche culturali di quei tempi. L'ubicazione strategica e la mole ci indicano una sua funzione bellica di tutto rispetto e come, di conseguenza, i suoi abitanti fossero caratterizzati da un acceso spirito guerriero.

A risultati non diversi si giunge considerando l’esistenza nel museo cagliaritano di varie sculture in bronzo, raffiguranti guerrieri armati, ritrovati e collocati nel tempo dell’età nuragica. Il numero dei nuraghi nell’isola esclude l’asserzione che essi fossero solo ed esclusivamente templi in cui veniva praticato il culto pagano. Un guerriero armato sino ai denti (scudo, spada ecc…) come raffigurato nei bronzetti, presuppone per i tempi di allora l’esistenza di basi logistiche corrispondenti. La struttura megalitica sarda rimane ancor oggi una costruzione ideata e realizzata sotto il profilo militare. Nelle immediate vicinanze sono state trovate tracce di abitazioni: semplici capanne, umili dimore dei sudditi. Si svolse evidentemente in quel periodo una vita di tipo medioevale, in cui il re e i suoi guerrieri trovarono alloggio all’interno del castello nuragico. Ma non l’odiato signore di quel periodo medioevale governava bensì un dio re, secondo la concezione teocratica degli antichi egizi. Il fatto che i nuragici, pur di mantenere integra la loro identità, non esitarono a dichiarare guerra prima ai punici e poi ai romani, significa che era radicata in loro la convinzione di essere un popolo con una propria cultura e civiltà da difendere.

 LA COSTANTE RESISTENZIALE

Stando alle poche fonti disponibili si sa di sicuro che, in seguito alla grande invasione punica, gli ultimi nuragici si rinchiusero nei monti dell’isola. Riuscirono così a sopravvivere costringendo gli invasori a vivere in un territorio circoscritto, oltre il quale non potevano agire liberamente né potevano rischiare di penetrare nelle zone impervie e montane del Marghine e della Barbagia. Nella zona di Campeda sono state ritrovate linee di demarcazione, veri e propri recinti di carattere militare, la cui funzione bellica ci viene confermata da proiettili di fionda del peso di oltre 4 quintali. Poco distante dalle “muras” a circa due chilometri, a San Simeone, si possono notare i resti di una fortificazione cartaginese risalente al V secolo a.c., con la quale presumibilmente gli invasori intendevano proteggere il traffico commerciale tra il Nord e il Sud della Sardegna dalle incursioni dei nuragici. C’è da arguire che i punici non riuscirono a piegare completamente la resistenza dei sardi, e che si guardarono bene dal penetrare nelle zone montuose non sentendosi sicuri nemmeno nei territori occupati. “Nell’interno della Sardegna – scrive Giovanni Lilliu in una sua opera dal titolo <Civiltà nuragica> (Carlo Delfino editore) – la vita continuò a manifestarsi, con forme proprie, ancora dopo la conquista”. Fu una diffidenza tra punici e sardi che durò secoli e che si affievolì col tempo, quando la potenza romana iniziò ad affacciarsi prepotentemente nel Mediterraneo. Nel 215 a.c., 23 anni dopo la vittoria sui punici, i romani combatterono un’epica e cruenta battaglia a “Cornus”, nei pressi di Cuglieri, contro i sardi e i discendenti cartaginesi. Forti di circa 24 mila uomini, tra fanti e cavalieri, equipaggiati di tutto punto, al comando del console Manlio Torquato, le truppe romane dopo furiosi combattimenti riuscirono ad avere ragione dei sardi. Il contingente indigeno in quella occasione era guidato da Ampsicora che, dopo la disfatta nella quale perse la vita il figlio Josto, si uccise di notte, come racconta Tito Livio, per evitare che i suoi gli impedissero di portare a compimento il gesto.

  

IL CORAGGIO DEI SARDI

Ma gli “Ilienses”, gli abitanti del Marghine e della Barbagia, non si rassegnarono alla dominazione romana e asserragliati nei monti, da dove ogni tanto scendevano a valle per effettuare attacchi a sorpresa contro i romani, resero per secoli insicura l’egemonia imperiale.

Una conferma in proposito ci viene data da Tacito, secondo il quale Tiberio, a distanza di oltre due secoli dalla epica battaglia di Cornus, inviò in Sardegna un forte contingente di soldati per domare i focolai di ribellione. Dai documenti sinora in possesso degli storici non si è ancora avuta conferma circa una resa definitiva degli antichi popoli della Barbagia al dominio romano. “I nuraghi – scrive Lilliu – continuavano ad essere usati nella difesa”. In questi baluardi, definiti da Livio “castra” e da altri autori classici “abitazioni sotterranee”, trovarono rifugio e dimora gli “Ilienses” , veri e propri guerriglieri, che con improvvise sortite misero in difficoltà e più volte le truppe dell’impero. Usi e consuetudini di origine preistorica rimasero comunque inalterati per secoli nelle popolazioni dell’interno della Sardegna. Questo ci viene confermato dall’invio di un missionario del Papa nel VI secolo d.c., per convertire le tribù barbaricine che ancora adoravano le pietre e il legno. “Sa bardana” che nel linguaggio corrente barbaricino significa “bravata”, un’azione di sfida nei confronti delle autorità che in certi casi ancor oggi si compie in piena violazione delle leggi vigenti, ha tutta l’aria degli atti di guerriglia, che i nuragici compirono spesso nei confronti degli invasori. Per compiere azioni temerarie di questo tipo contro la più grande potenza del Mediterraneo antico occorreva essere audaci, avere un indomito coraggio, una forza d’animo inconsueta, per cui a questi uomini coraggiosi è stato attribuito dal linguaggio popolare il nome di “balentes”. Il termine “balente”, uomo che vale, usato attualmente nel mondo pastorale dell’interno della Sardegna, per indicare “l’uomo” che sa difendere anche con la forza i suoi diritti, veri o presunti (confronta il “valiente” spagnolo, potrebbe essere collegabile alla definizione che veniva data al “guerrigliero nuragico”). “Non possiamo non immaginare – scrive ancora Lilliu – che forme di vita materiale, psicologica, morale di questa civiltà, e consuetudini, vive in Barbagia ancor oggi e resistenti alla civiltà industriale, abbiano a lungo durato, più o meno inalterate, penetrando largamente in età storica”. Tempo addietro, in un centro di montagna del Marghine, Bolotana, direttamente confinante con la Barbagia, il titolare di un bar (su zilleri) respinse sdegnosamente la mancia che un ignaro turista le aveva offerto. E’ un comportamento che a livello inconscio ed arcaico richiama una fierezza “nuragica” tutta sarda, improntata alla difesa della propria dignità ad ogni costo e non facilmente corruttibile. Un modo per difendere la propria essenza e identità. E anche così, attraverso una meticolosa ricostruzione di metodi e comportamenti sociali ancora in uso, che si possono trarre utili indicazioni e avere più elementi e cognizioni su “un’epoca ancora piena di segreti”.    

 ILCULTO DEGLI ANTICHI SARDI

Il culto praticato dai sardi si ritiene fosse diretto agli elementi della natura con una particolare attenzione al cielo e alle acque. Non c’è da stupirsi, dal momento che l’isola ha sempre dovuto affrontare problemi di siccità e la società nuragica viveva prevalentemente di agricoltura e pastorizia. Determinate concezioni religiose, che si hanno tuttora nelle popolazioni sarde, hanno affinità con gli antichi culti e riti propiziatori di periodo pagano. Il cattolicesimo durante la conversione di popoli ancora primitivi, per far loro accettare meglio la nuova religione, usava dare una tinta cristiana ai riti preesistenti. Alcuni anni fa, nei periodi di grave siccità, in molti paesi si usava sfilare in processione con i simulacri di santi come Sant’Isodoro, che nel passaggio al cristianesimo ha sostituito un’altra immagine o divinità di origine pagana. Che il culto dell’acqua fosse ricorrente nel periodo nuragico, ci viene data conferma dal ritrovamento di numerosi pozzi sacri, situati nelle immediate vicinanze delle mastodontiche costruzioni megalitiche. L’adorazione del Sardus Pater è messa in discussione nel senso che esso era un elemento estraneo alla gente originale sarda.

I cartaginesi, per attirarsi le simpatie dei sardi, potrebbero aver introdotto questo culto col precipuo intento di rendere più vicina la loro cultura a quella del popolo invaso. In ogni caso, tanto per rifarci a documenti probanti, i sardi usavano, come d’altro canto molti popoli primitivi, adorare i”menhirs” e pietre naturali. Attraverso un documento pontificio scopriamo che nel 578 d.c. il Papa Gregorio Magno inviò un missionario per convertire alla religione cristiana le popolazioni dell’interno. Si tratta di una lettera inviata al capo di una tribù degli “Ilienses”, con la quale il sommo pontefice lo esortava ad aiutare il missionario nell’opera di conversione. Nel documento era espressa in maniera chiara ed inequivocabile grande preoccupazione per il fatto che sardi dell’interno adorassero ancora le pietre e il legno. Nonostante la lettera di Gregorio Magno risalga a molti secoli dopo la civiltà nuragica, essa costituisce un valido documento circa il culto praticato dai sardi prima del cristianesimo. E per andare oltre ci dà una chiara idea della resistenza che i nuragici opposero alle nuove leggi dell’impero romano. L’adorazione,poi, di betili e della divinità “Mater Mediterranea” ci viene confermata dal ritrovamento di numerosi simboli fallici e tratti mammillari scolpiti in pietra. Nelle montagne nuoresi sono stati rinvenuti ben 125“menhirs”                         

Antonio Mastinu

                                        

 

 



 "Qui vir fortis est qui nolit laborem et officia cum periculo adpetere?". (Seneca)